Anche quest’anno, l’assegnazione dei Cx Store Award offrirà l’occasione per scoprire come si sta evolvendo il giudizio di miglior rapporto qualità/prezzo attribuito dai consumatori all’insegna, punto di partenza di un percorso analitico che esplora le mille sfaccettature della relazione che lega cliente e store.
Posso essere deluso dal prezzo, ma non dalla qualità di quel che compro”
ebbe a scrivere Juan de Mariana, teologo ed economista membro della Compagnia di Gesù e professore della prestigiosa Università di Salamanca alla fine del 1500. Semplice, chiaro, indiscutibile. Qualità, proprietà, carattere, attributo, come li vogliamo chiamare sono termini che identificano una caratteristica intelligibile (sebbene a volte inesprimibile), attraverso la quale una cosa può essere valutata.
La pandemia ha agito come un maglio sulle abitudini di acquisto di milioni di famiglie in senso sia regressivo sia progressivo
Insomma, qualità è un concetto generale applicabile a qualsiasi oggetto o servizio, un concetto che appartiene alla natura essenziale di qualcosa, a volte misurabile e a volte no, ma che si può sempre percepire.
“La qualità – diceva Steve Jobs riferendosi metaforicamente al baseball – è più importante della quantità. Un fuoricampo è molto meglio di due doppie”.
Ed è l’attitudine mentale su cui, per esempio, ha puntato lungamente P&G affermando che il suo consumatore non avrebbe mai scambiato il suo Dash con due fustini generici. In questo modo arriviamo al connubio tra qualità percepita e interiorizzata e fedeltà maturata e rafforzata dalla pratica di acquisto e di consumo.
“Per me – ebbe a dichiarare la cantante statunitense Fergie – non si tratta di prezzo. Si tratta di necessità, qualità e utilità. Per esempio, ho il mio lipliner Wet N Wild 666. Costa 99 centesimi e da sempre è il mio preferito. Ho iniziato a usarlo quando ero al liceo ed è fantastico”.
L’offerta di un’adeguata qualità da parte di chi partecipa al business, dal lato opposto a quello del cliente, è tuttavia un proposito sfuggente e ingannevole. Per quanto la manualistica di marketing sviluppata da accademici e consulenti abbia trasmesso una certa sicurezza ai professional che si misurano ogni giorno con dichiarazioni sulla qualità, nei fatti, il suo reale valore rimane un mistero irrisolto.
Con una semplificazione inaccettabile, tuttavia, quasi sempre si riconduce questa valutazione a dei casi che in realtà restano un’eccezione evidente.
La qualità è un concetto a volte misurabile e a volte no, ma che si può sempre percepire
La qualità dipende, infatti, dall’esperienza. Confrontare una crema spalmabile di Nutella è semplice, ripetibile e soprattutto non implica costi. Farlo con il Tavernello e un Romanée-Conti Grand Cru è pressoché impossibile per ovvie, analoghe ragioni. Ancor più astruso è il paragonare località turistiche. Com’è triste Venezia se non si ama più, cantava Aznavour. Quanto sei bella Roma quando piove, melodiava Venditti.
E non parliamo dei ristoranti. Per scegliere la miglior qualità della cucina di 5 ristoranti (e sono pochi) dovremmo assaggiare tutto il loro menù e poi ponderare l’importanza attribuita (ma da chi?) a ciascun piatto. Inoltre, non potremmo trascurare il servizio e neppure l’atmosfera e infine il nostro stato d’animo. L’arte ruffiana degli influencer sta proprio nel far credere che tutto ciò sia possibile e abbia un senso. Tuttavia, ancor più difficile è il compito riferito ai luoghi di vendita del consumo massificato.
Prendiamo due casi americani: Wegmans e Costco. La prima offre 70.000 referenze fortemente sbilanciate verso il food, e queste ultime fortemente sbilanciate verso le marche private e la produzione fresca in-store-made. La seconda ha un assortimento piatto e limitato di grandi formati di grocery e general merchandising ceduti ai prezzi più bassi in ogni piazza.
Entrambe sono agli antipodi della tecnica commerciale, ma sono anche galline dalle uova d’oro che godono della più solida lealtà della propria clientela. Com’è possibile? Si potrebbe dire che ciò deriva dal non seguire il concetto ingegneristico di qualità, ovvero l’ottenimento delle migliori performance misurabili, indipendentemente dal valore a esse riconosciuto da una clientela molto eterogenea per definizione.
Per il terzo anno, allora, il nostro Cx Store Award che si è tenuto il 28 aprile ha risolto analoghi quesiti attraverso una robusta e originale metodologia, sperimentata più volte. Ovvero la quantificazione degli apprezzamenti per il miglior rapporto qualità/prezzo, come punto di partenza di un percorso analitico che esplora le mille sfaccettature della relazione che si stabilisce nel tempo tra cliente e insegna.
Rispetto alla fine del 2019, la pandemia ha agito come un maglio sull’insieme delle abitudini di acquisto di milioni di famiglie in senso sia regressivo (minore attenzione alla varietà dell’offerta, minor sensibilità a certe forme di promozione ecc.) sia progressivo (aumentata familiarità con il web e l’online, riordino delle priorità di spesa, riequilibro tra consumo in casa e fuoricasa ecc.).
Il localismo è il luogo reale del confronto competitivo tra retailer
La seconda grande novità sono le aspettative inflazionistiche. Sono solo pochi mesi che la tambureggiante pressione dei media si è spostata dalle risse mediatiche tra pro e no-vax alle ansie per la verdura e la carne dai “prezzi inarrivabili” o per i salassi da bollette in un crescendo che costituirà il leitmotiv del 2022.
L’edizione 2022-23 del CX Store Award è servita dunque a comprendere, in base al mutato rapporto tra qualità offerta e prezzo corrisposto, perché certe insegne prevarranno di nuovo, cosa sta causando il cedimento di altre e soprattutto cosa stia accadendo a livello locale, grazie all’elevata granularità del dato raccolto. Perché è il localismo il luogo reale del confronto competitivo tra retailer e le sorprese non mancheranno.