Prima di presentare l’ennesima novità di Barilla, un breve excursus storico. Era il 1992 e Jean-Noël Kapferer pubblicava un testo destinato ad un grande successo. Il titolo era “The New Strategic Brand Management: Creating and Sustaining Brand Equity Long Term”.
L’autore notava che dal 1990, la tecnica del Brand Extension attirata l’interesse di un numero sempre maggiore di marketing & research manager e di accademici. Si trattava di un terreno ancora inesplorato e non strutturato da una vera e propria logica sottostante, non ancora fertilizzato da analisi quali-quantitative che ne dimostrassero l’efficacia.
Poiché la posta in gioco era grande per le marche che erano state edificate con decenni di assiduo lavoro, si trattava allora di razionalizzare questo approccio, che pareva risolvere parecchi nuovi problemi nati dalla crescita parabolica dei costi necessari per lanciare nuovi prodotti su ampia scala.
Kapferer codificò allora il processo di estensione del marchio, in otto passaggi chiave, partendo dalla VALUTAZIONE:
- delle brand equities (la sua immagine, o gli asset emozionali, le sue competenze riconosciute tra i vari segmenti della popolazione).
- dell’attrattiva intrinseca delle probabili categorie in cui estendersi
- della trasferibilità degli asset del brand nella categoria prescelta.
- della rilevanza degli asset: ovvero la verifica dei benefici reali apportati a questa categoria?
- della capacità dell’azienda di fornire i benefici attesi sussunti dal marchio.
- della superiorità percepita da questa estensione rispetto alla concorrenza esistente.
- della capacità dell’azienda di fronteggiare la concorrenza nella nuova categoria e di acquisire la leadership nel tempo.
- degli effetti di feedback sul marchio madre e sulle vendite del prodotto principale, Cioè gli effetti ldel’estensione al marchio (nuovi clienti? nuovi tratti di immagine? nuove vendite?)
Barilla è entrata nel segmento specifico del gelato, scegliendo di non giocare l’enorme reputation del suo marchio, per affidare il tutto ad un sub-brand (Pan di Stelle) divenuto esso stesso marca a tutti gli effetti.
Quindi dopo il sandwich biscotto gelato Pan di Stelle (più vicino al prodotto madre) è la volta del Cono Gelato.
Tutto questo sembra molto logico poiché l’associazione simbolica spontanea “pasta-gelato” avrebbe potuto costituire un probabile ostacolo. Viceversa, l’equity dei suoi frollini al cacao, proprio in virtù di quest’ultimo ingrediente sembra prestarsi bene al concetto di un cono a cui il morbido biscotto on top conferisce un tratto distintivo, familiare, rassicurante e goloso al tempo stesso.
L’affezione di una notevole parte del pubblico a questi frollini, ormai da generazioni, li colloca nel repertorio dei grandi marchi dell’immaginario collettivo. Questa è una buona premessa.
Il prodotto che vede come copacker, nientemeno che Unilever, si presenta quindi teoricamente con tutti i requisiti oggi prescritti.
Gli ingredienti principali vantano la naturalità (Miele italiano, Uova fresche da galline allevate a terra, Nocciole italiane, Latte e Panna freschi). Il pack è riciclabile con due differenziazioni. Il cacao di importazione è solidale con gli agricoltori di Costa d’Avorio e Ghana. Anche il formato di 60 gr, sembra essere stato scelto per limitare l’apporto calorico (182 calorie) e lipidico (9 gr).
Insomma, rileggendo i vecchi precetti di Kapferer, sembra che gli 8 step siano stati seguiti e rispettati tutti.
Resta da chiedersi il perché di questa (e di altre brand extension) dell’azienda di Parma. Ovviamente non conoscendo le motivazioni per informazione diretta, possiamo solo dedurre un’ipotesi. Questa sembra sia la risposta che sempre più frequentemente le grandi aziende italiane e internazionali tutte, stiano cercando di dare alla micro-erosione delle loro quote di mercato da parte delle PL e tante aziende alimentari di piccole dimensioni.
Questa frammentazione dello scenario concorrenziale è certamente l’effetto di variabili nascoste e difficilmente quantificabili: il progresso delle tecnologie facilmente disponibili, il know-how accumulato da copacker allevati dalle logiche di outsourcing, l’allargamento dei mercati internazionali, ecc.
Il confronto non è più quello epico tra big brand, come negli ultimi decenni del XX secolo. Oggi aziende come Barilla devono tenere conto dell’ininterrotta azione concorrenziale di marchi locali, delle segmentazioni bio-vegane, dei marchi lillipuzioni che lottano per una presenza sullo scaffale.
Pertanto l’unica soluzione sembra essere: diversificare, allargare l’offerta di proprie referenze, ma sotto l’ombrello protettivo del goodwill cumulato dai marchi storici.