Per capire quale distanza psicologica ci separa sul piano alimentare, oggi che si parla di limitare i consumi di carne per difendere l’ambiente dai secoli trascorsi, è utile richiamare tra i tanti alcuni spunti che ci sono offerti dalla celeberrima e lucidissima introduzione di Piero Camporesi alla “Scienza in cucina” dell’Artusi.
Riflettendo su ciò che è stata la cucina storica antecedente alla fissazione dei “canoni scientifici” e dietetici odierni, Camporesi vi ritrova le espressioni di una visione del mondo che, tradotta in pratica, sembra avere ai nostri occhi i tratti agghiaccianti e repellenti di un gioco macabro con cadaveri di animali squartati, dissanguati, sventrati, spezzettati. La caccia, la macellazione e la preparazione delle carni, in fin dei conti, sono sempre state dai tempi più remoti atti crudeli e sanguinosi, belluini e al tempo stesso magico-rituali. L’uomo affamato li mise in atto senza alcun senso di colpa.
La prosa a tinte forti di Camporesi serve a ricondurci vicino a ciò che egli definisce una sorta di massacro sanguinolento che non temeva la contaminazione con il sangue, ritenuto, anzi, da sempre rigeneratore delle energie vitali, ingrediente gustoso oltre che dalle straordinarie proprietà ricostituenti.
Attualmente, dietro la progressiva presa di distanza dal sangue e dalla morte degli animali si va stabilendo tra gli italiani una relazione nuova con la carne.
In primo luogo vi è il passaggio dalla “zoofagia” alla “sarcofagia”, ovvero dal consumo cosciente di un animale nelle sue fattezze, a quello di pezzi o di trita di anonima provenienza, preferibilmente già cotti. Sempre a mo’ di salvaguardia dell’ambiente si parla di carne fatta crescere in laboratorio, ovvero una sorta di resurrezione di un materiale organico edibile, ma defunto.
Tuttavia, per altri versi, pur di non rinunciare alla simbologia di burger, spiedini e salsicce già sostitutiva della originaria zoomorfologia, anche le nuove pappe vegetali vengono colorate e sagomate in tal guisa.
Come segno del cambiamento potremmo allora dire che, dal programma democristiano degli anni ’50, di mettere sulla tavola domenicale di ogni famiglia un pollo arrosto, si è giunti a quello di porvi ogni giorno polpette e polpettoni tratti da amalgama di granaglie, tuberi e leguminose. Il sugo della vita, di cui scrisse Camporesi, si prosciugherà nella società postindustriale – asettica, anemica, emofobica?