Il movimento decolonizing food – Avverto subito, nel contesto di questo articolo nessun revisionismo storico e tanto meno nessun incitamento a rinunciare ai prodotti che ci arrivano da tutto il mondo.
Il concetto di decolonizzazione degli alimenti ha varie anime, che è necessario conoscere anche se non tocca direttamente l’Italia attuale. Le conquiste coloniali e il seguente processo di indipendenza degli Stati sono ormai passati al vaglio degli storici nonché al giudizio della coscienza collettiva.
Qui facciamo una pausa di riflessione sulla nuova decolonizzazione, una forte tendenza che si applica a diversi contesti, in particolare alla moda, all’architettura, al sistema museale e all’alimentazione.
Si presenta come un fenomeno eminentemente culturale, ma con ovvie ricadute sui consumi, gli stili di consumo e sulle motivazioni ad esso connesse.
Si tratta di un movimento che vuole ridare identità a ciò che è stato tolto, riconoscere a chi ne è stato privato il contributo originale dato alla cultura alimentare.
Per alcuni è anche un processo di riconciliazione e di riconoscenza. Va messo da parte il concetto di primitivo, di indigeno (operazione già compiuta dall’antropologia culturale) per comprendere invece il vero valore nutrizionale, simbolico, rituale, edonico di ciò che è arrivato in Europa da Paesi lontani soprattutto negli ultimi cinque secoli.
Per esempio, la patata arrivata in Spagna nei primi decenni del ‘500 ad opera dei conquistadores spagnoli, in particolare in Perù e Messico, è stata cruciale per salvare le popolazioni europee dalle ricorrenti carestie che le decimavano, poi grazie all’agronomo Antoine Parmentier dal XVIII secolo la coltivazione si estese in modo intensivo in diversi Paesi, stimolando generazioni di cuochi al servizio di papi e re, ma anche offrendo alla gente comune sostentamento. Oggi l’industria alimentare non ha ancora finito di inventare proposte a base di patate.
Se è impensabile fare a meno delle patate come di decine e decine di verdure, frutti e spezie arrivate dai quattro angoli del mondo, va però trovata una risposta a questa domanda: cosa ha dato l’Europa in cambio?
Come accennato, non si vuole aprire un processo alla storia, ma di fatto la decolonizzazione nel food sta diventando un movimento che bisogna prendere in considerazione seriamente. Non oltre 3-4 anni fa, il movimento vegano sembrava un atteggiamento di una piccola minoranza, oggi non c’è supermercato, o discount che non metta in vendita questi prodotti, lo stesso per il canale horeca, la ristorazione ha trovato nel vegan un prospero filone per creare nuova offerta, quindi bisogna conoscere anche il significato di decolonizzazione quando è applicato al settore agroalimentare.
“Decolonizing food” è un movimento che, nelle frange estreme, rifiuta il cibo rielaborato industrialmente, una lavorazione che lo rende altro rispetto all’origine, ne cancella le tracce di provenienza e appartenenza culturale.
Una linea di pensiero che invece, nel suo nucleo centrale, vuole in realtà solo garantire ai territori e alle popolazioni d’origine il riconoscimento d’essere stati i primi a coltivare alcuni prodotti. Il movimento si propone di ridare a queste popolazioni la possibilità di tornare a coltivarli secondo propri metodi, promuovendo un’agricoltura sana e sostenibile per le persone e per l’ambiente.
La decolonizzazione del cibo è dunque primariamente rivalutazione delle colture autoctone, le prime in ordine di tempo, e riconoscimento del Paese d’origine, nonché della cultura alimentare e culinaria derivata da questi prodotti. Lasciare spazio al movimento di decolonizzazione alimentare significa ridare valore all’origine geografica, ma anche a quella umana, apprendendo come i prodotti naturali sono stati rielaborati nei secoli per diventare, di volta in volta, cibo nel senso più ampio: nutrimento, esperienza, cultura, stile di vita.
Il movimento sovranità alimentare
Quanto agroalimentare è attualmente importato in Italia da Paesi non appartenenti all’UE? Tanto ed è ancora in crescita e non parlo di frutta esotica. Si importano ortaggi freschi come il pomodoro e la cipolla che d’altra parte sono originari rispettivamente del Sud America e dell’Iran.
L’Italia è fortemente dipendente dalle importazioni di ortofrutta e di altri prodotti agroalimentari e d’allevamento. È di grande importanza capire la geografia fisica dei prodotti, per inquadrare la “sovranità alimentare” che non va spinta nell’area ideologica. Va riconosciuto che i prodotti originari di altri Paesi sono giunti in Europa nel corso di molti secoli.
I vari Paesi europei hanno però saputo adattare, acclimatare, coltivare e poi trasformare questi prodotti che, in numerosi casi, sono diventati davvero altro rispetto all’origine. L’agroindustria, la scienza, ma anche gli interventi normativi, l’evoluzione demografica, i cambiamenti di gusti e tendenze sono fra i molti fattori che hanno contribuito alla trasformazione. Oggi in ambito UE si contano centinaia di denominazioni di prodotti agroalimentari (l’Italia detiene il primato con 314 prodotti DOP-IGP-STG e 526 vini DOCG-DOC-IGT), si tratta di referenze che hanno acquisito una nuova origine, una diversa identità.
La patata importata dal Perù oltre 500 anni fa non è più la stessa che si coltiva e consuma oggi, la ricerca ne ha moltiplicato le varietà, ne ha fortificato la resistenza a situazioni climatiche e l’adattamento a terreni ben lontani dagli originali, ne ha cambiato qualità organolettiche e perfino prestazioni in cucina. Forse è questo il maggior contributo dato dall’Europa, un progresso scientifico che ha migliorato colture, cibo e salute di cui tutti possono beneficiare.
Se la maggior parte dei prodotti agricoli ci sono arrivati nel tempo da tante e diverse aree geografico, va riconosciuto che l’Italia e altri Paesi in ambito UE hanno saputo trasformare con inventiva i prodotti della terra e d’allevamento. Così prima di parlare di sovranità alimentare va misurata la distanza fra il passato (la prima origine dei prodotti) e la situazione presente in cui si è creata ex novo un’origine.
Ogni singolo frutto, o ortaggio, o cereale, o altro prodotto è passato attraverso metodi di coltivazione, adattamenti al suolo e al clima, disciplinari di produzione, normazione, ricerca e altri interventi, ossia si è creata una distanza enorme fra l’antico e il nuovo.
L’attuale movimento che propugna la sovranità alimentare ha diverse anime e frange (come quello per la decolonizzazione alimentare), bisogna quindi tenere presente che non sono movimenti monolitici, comunque l’idea di fondo fa riferimento al diritto di ogni Stato ad autodeterminare la propria politica agroalimentare, rivalutando la piccola e media produzione, proteggendo la biodiversità e le produzioni autoctone tipiche. Va precisato che il movimento nasce in un contesto veramente dissimile dall’Unione Europea (dove, per inciso, la politica agroalimentare dei Paesi membri è decisa da 60 anni dalla PAC-Politica Agricola Comune, che ha fra gli obiettivi anche il compito di preservare i paesaggi rurali, gestire le risorse naturali, salvaguardare la biodiversità).
Dunque un contesto in cui per le popolazioni (in alcune parti di Asia, America Latina ed Africa) ci sono ancora attualmente oggettive difficoltà a poter accedere all’attività agricola, alla formazione, alla scelta di cosa coltivare (impedimenti dovuti a colture estensive esercitate da corporation estere, land-grabbing, monocolture intensive, latifondismo ecc.). Se il movimento per la sovranità alimentare nasce ufficialmente nel 2008 (e l’ONU ne ha dato questa definizione “Food sovereignty is defined as the right of peoples and sovereign states to democratically determine their own agricultural and food policies”), l’Italia aveva già regolato la questione agricola con la riforma agraria del 1950 (legge stralcio n. 841 del 21 ottobre 1950) e, come tutti gli stati membri dell’Unione Europea, dal 1962 si conforma a direttive e regolamenti.
La sovranità alimentare che l’Italia propone (ma non oppone all’UE giacché è proprio da questa che discendono le denominazioni d’origine e altre tutele ai prodotti agroalimentari nazionali di cui l’Italia può vantare un primato) come va intesa?
Nel sito www.politicheagricole.it de “Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste” non si trova ancora risposta.