Il sommo Virgilio scrisse: “Aeneas primique duces et pulcher Iulius corpora sub ramis deponunt arboris altae instituunque dapes et adorea liba per herbam subiciunt epulis (sic Iupiter ipse monebant) et Cereale solum pomis agrestibus augent.” (Aneidos, Liber VII). Così nacque la leggenda della Pinsa romana.
“Enea, i capi dei Teucri e il bel Giulio, si adagiarono sotto i rami di un grande albero, imbandirono la mansa e misero focacce di farro al di sotto sotto dei cibi di erbe (così li ispirò Giove) e colmarono di pomi selvatici il piatto di farro”, in breve in mancanza di piatti i Latini dei tempi lontani usavano un pane “stirato” (…“pinsere” significa appiattire) per deporvi gli ingredienti del pasto.
Potremmo chiamare il tutto uno street-food ante-litteram, oppure, per essere ancora più trendy, uno “stuffed flatbread”, similmente al turco Gozleme o all’indiano Paratha o alle centinaia di pani-focaccia che fanno parte delle culture alimentari con al centro il grano e i cereali ad esso assimilabili.
La pinsa latina, divenuta poi romana, precede la pizza, distinguendosi da essa sia per la modalità d’uso, sia per gli ingredienti. Il suo bordo deve essere scrocchiarello e l’interno morbido e in grado di assorbire i liquidi della farcitura. In questo senso si distingue dalla vera pizza napoletana che deve invece essere elastica per piegarsi a portafoglio ed essere mangiata in strada come nella Napoli popolana d’un tempo. La stessa forma rettangolare della pinsa ne sottolinea la differenza.
Cambia pertanto l’impasto, che andrebbe cotto su pietra, così da inspessire il lato inferiore e lasciare il bordo moderatamente croccante; impasto che prevede oltre a farina di grano tenero, una piccola percentuale di grano duro e poi farine di orzo, di farro e in certi casi di riso, a seconda dei processi industriali o artigianali con cui la pinsa viene prodotta.
Ancor più della pizza, la pinsa, che pur vanta radici secolari, è una preparazione post-moderna per antonomasia, in quanto può essere reinventata continuamente grazie all’inesauribile mix di ingredienti che supporta.
Pertanto il Mulino Bianco Barilla ha lanciato la propria Pinsa, shelf-stable (ed è importante!), semi-preparata, dotata di vassoio riciclabile da forno, a rapida cottura (5’).
Si tratta di una referenza che arricchisce la gamma di flatbread di questo marchio: piadelle (classiche, sfogliate, da toast), tigelle, focaccelle,… e che ha il vantaggio di lasciare libero il consumatore di “condire” la pinsa a piacimento con prodotti freschi di sua scelta.
Resta da chiedersi se Barilla vorrà, in futuro, esplorare anche l’universo extra-Italy dei flatbread quali Pikelets, Khoubiz, Lavash, Injera, Naan, Kulcha, Appam, Puran Poli, Jolada Roti, ecc. Da una multinazionale come Barilla, possiamo aspettarcelo e anche auspicarlo.