A Isaac Newton bastò (pare) una mela sulla testa per connettere concetti prima scollegati e formulare la legge della gravitazione universale. Insomma, l’enigmatico Isaac, per giungere alla conclusione, non ebbe bisogno di big data e di algoritmi per macinarli.
Newton però era addentro al campo delle “scienze dure”. Io mi diletto di scienze sociali che, in realtà, scienze non sono, ma piuttosto cumuli disorganici di saperi sui comportamenti umani individuali e di gruppo.
Uno dei temi più ricorrenti, a tal proposito e in ispecie di questi tempi tribolati in cui si riscopre l’inflazione, è l’effetto dei prezzi sulla propensione ad acquistare e a discriminare tra le tante possibili scelte che ci offrono i punti di vendita.
È un tema su cui si produce, però, molto calore, ma ben poca luce.
Eppure, per fissare alcuni punti basilari, bastano pochi semplici esperimenti empirici per comprendere come le persone normali (non le “buyer personas” che tanto van di moda nel marketing odierno) elaborano ed utilizzano i prezzi. Uno di questi esercizi lo condusse un mio tesista, in una cittadina toscana. In breve, cercammo assieme di verificare quale peso avesse la ineliminabile componente irrazionale nel processo conoscitivo-mnemonico che guida l’agire dei consumatori-shopper. Partimmo da questo semplice schema suddiviso nelle fasi di:
- Percezione
- Cognizione
- Memorizzazione a breve termine
- Memorizzazione a lungo termine
- Comparazione
- Conazione [1]
dei prezzi dei supermercati.
Riassumendo, quel bravo giovine intervistò 50 persone ponendo loro alcune semplici domande.
In primo luogo, chiese loro di
scegliere i due prodotti grocery che conoscevano meglio di altri perché comprati più spesso.
Quindi, domandò quale fossero il prezzo e il formato (immaginario) dei due prodotti indicati e l’insegna in cui si recavano abitualmente.
Indi si recò presso i punti vendita menzionati e rilevò i prezzi e i formati reali dei prodotti segnalati dai soggetti del campione. Semplice no?
Tornato dai medesimi individui chiese loro di specificare il prezzo dei due prodotti da loro preferiti e poi, in base agli scarti rispetto ai prezzi reali, classificò i risultati in questo modo.
- Il 6% degli intervistati “disattenti” o “sbadati” ricordava i prezzi con un errore percentuale maggiore del 50%.
- Il 15% degli intervistati errava con differenze percentuali tra il 25% e il 50%.
- Il 54% degli intervistati, sbagliava tra il 5 e il 25%
- Il 25% commise errori tra 0 e il 5%
In seconda battuta il laureando tornò ad intervistare gli stessi individui, chiedendo loro di
riordinare alcune marche concorrenti dei 2 prodotti prescelti e vendute nel loro negozio abituale, semplicemente in base al prezzo al kg.
Attenzione! Egli chiese un banale ordinamento lessicografico, cioè senza dover specificare numericamente i prezzi corrispondenti: in sintesi, solo la sequenza ordinata dal più caro al meno caro. Come si vede nell’esempio riportato, (che si riferisce a sole 3 persone del campione) nel caso più facile poiché il formato, il peso, non cambiano!
Avrete già intuito il risultato.
Gli ordinamenti enunciati contenevano numerosi errori. Ma quanti errori? Quanto grandi?
E come si poteva valutare la precisione e la razionalità d’insieme di quelle memorizzazioni?
Risposta. Poiché i dati non erano quantitativi, ma semplicemente sequenziali si scelse di usare qualche artifizio fornito dalla genetica. Com’è noto, per stabilire se il DNA di un individuo corrisponde a quello trovato sul corpo della sua presunta vittima se ne deve misurare la rassomiglianza, ovvero la “distanza” tra ogni singolo elemento del codice generico e valutare poi se la differenza complessiva è talmente piccola da non lasciare dubbi sulla corrispondenza tra l’uno e l’altro.
Allo scopo la statistica offre molti criteri, molti “indici di similarità” che vanno sotto il nome di Distanza Euclidea, di Bray-Curtis, Canberra, Czekanowski Index, Squared Chord, Jaccard Index, Kulczynski, Burrows’ Delta, ecc.
Risultato? Alla luce di vari criteri sopra citati,
solo il 18% degli elenchi ordinati secondo i prezzi memorizzati erano esatti
o con errori così contenuti da poter dire che quei clienti sceglievano i loro prodotti preferiti processando razionalmente i segnali costituiti dai prezzi.
In conclusione,
la capacità di valutare (anche approssimativamente) i prezzi relativi di prodotti e marche simili e di memorizzarli è rara.
Ma se una persona non è in grado di ordinare nella propria mente i prodotti secondo il loro prezzo, in che misura possiamo ritenere che essa compia quelle scelte razionali, che sono il presupposto per tanti ragionamenti di retail marketing?
Ovvero, a cosa serve tutta l’algoritmica per determinare il prezzo “giusto” per ogni referenza se poi nella nostra mente ne consegue un gran bordello? (2)
Pleonastico è notare che nella vita comune non parliamo di 2 prodotti, ma di migliaia e i cui prezzi variano incessantemente nello spazio-tempo; prodotti spesso comprati a distanza di tempo.
La risposta consiste dunque nel ridefinire il termine di “razionalità”. Allora, senza entrare nel merito di una letteratura sterminata, possiamo convenire che
gli esseri umani sono razionali a modo loro,
soggettivamente, non in base a criteri stabiliti dall’esterno. Per dare un senso ai ragionamenti sui prezzi e la loro funzione nel mercato bisogna tenere a mente che esiste sempre un trade-off tra il costo psichico nel raccogliere questi segnali, del trattenerli nella nostra memoria e utilizzarli in un successivo calcolo utilitaristico. Certo ci sono casi in cui ricordiamo con esattezza il denaro che ci venne domandato, per esempio, da un ristorante, da un hotel o da chi ci riparò l’auto.
Nel caso dei prodotti a basso impegno monetario, invece, lo sforzo per applicare quel processo che porta alla conazione della scelta diventa antieconomico. Sotto le certezze di coloro che sono convinti che convenga andare in Coop o in Esselunga o in Despar si cela piuttosto un ammasso di impressioni , sensazioni ricordi che vengono parzialmente aggiornati di giorno in giorno.
Ecco perché
le promozioni di prezzo, gli sconti le svendite non sono in grado di ribaltare completamente gli automatismi psicologici che guidano lo shopping ripetuto di prodotti di uso frequente.
Se così non fosse, la forza finanziaria dei più grandi avrebbe eliminato ogni concorrenza a colpi di sconti e offerte speciali.
Invece accade il contrario. Guadagnano spazio formule come Eurospin che si appella alla “spesa intelligente” o le aziende schumpeteriane locali che enfatizzano la qualità dei loro reparti “freschi”, e i cui prezzi sono, dal punto di vista meramente “statistico”, di fatto ingovernabili e dunque incomparabili.
Detto brutalmente
ciò che conta, alla fine, è l’“impronta” lasciata in memoria dai prezzi percepiti, a seconda della predisposizione di ciascuno.
Tuttavia, in un contesto di rapida inflazione la capacità di ordinare i prezzi relativi e di compararli tra loro diminuisce notevolmente proprio perché lo sforzo del gestire il processo descritto aumenta più che proporzionalmente.
Conclusione (una tra le tante!): nel prossimo futuro giocherà un ruolo fondamentale la “price image” costruita nel corso degli anni da ogni insegna. Le iniziative eclatanti, sporadiche, ed anche esagerate, non ci si illuda, avranno effetto temporaneo e non risolutivo dal punto di vista della conquista della fedeltà del cliente, perché la “reputation” (anche se basta poco per bruciarla in un attimo) come in ogni altro aspetto della vita la si conquista con fatica e costanza.