Visti dall’esterno del processo aziendale i nuovi potato puff crisp Pai “a forma di pasta” meritano certamente una riflessione che va oltre le stereotipate considerazioni che accompagnano il lancio di nuove referenze.
Ci sono invece elementi per richiamare la relazione invisibile tra il mondo appartato della critica artistica e la più prosaica attività volta a convincere un cliente del supermercato a prestare attenzione, acquistare e gustare l’ennesima referenza di una classe di prodotto satura, matura e affollata.
Quest’ultimo compito non è facile, poiché a) patatine ed estrusi sono oggetto di feroci critiche salutistiche, b) i mercati globalizzati ne propongono la moltiplicazione di gusti e formati; c) le PL divorano lo spazio delle versioni alto ruotanti di brand prestigiosi. Il marketing di Pai sembra, allora, aver studiato fatto propri alcuni contributi artistico-filosofici che hanno evidenziato il valore simbolico degli alimenti.
Probabilmente quei manager hanno letto e applicato semplificandoli i contenuti del celebre testo di Carolyn Korsmeyer (Making Sense of Taste: Food and Philosophy). Pertanto, hanno usato la tecnica del trompe l’oeil dopo aver sottoposto il prodotto ad un morfismo, ovvero un processo che trasforma una struttura in un’altra mantenendo alcune caratteristiche “strutturali” della prima.
Com’è noto il trompe l’oeil “alimentare” (quello delle nature morte, per intenderci) si appella all’occhio, pur se sembra – da tanti studi – che tali immagini facciano appello anche al senso del gusto e all’appetito gustativo. Le informazioni fornite dalla vista, dicono i filosofi, si prestano ad un’astrazione che produce la conoscenza degli universali. Cioè la nostra mente è predisposta a generalizzare gli oggetti rappresentati con colore e forma (in questo caso da un pack molto didascalico) anticipandone e valutandone le qualità (nozione filosofica tuttavia superflua per i responsabili di reparto, i quali sanno benissimo come esporre, frutta, pesci, specialità gastronomica,… per renderli appetibili e dunque acquistabili!).
Tornando a Carolyn Korsmeyer, va detto che ella ha ben evidenziato i parallelismi tra le nozioni di gusto estetico e gustativo (nel senso proprio) chiarendo l’importanza che gli oggetti del gusto – cibi e bevande – rivestono nella storia e nello sviluppo dell’arte. Tutto ciò grazie a innumerevoli opere che raffigurando il cibo in contesti sacri e profani, hanno cercato di stuzzicare l’appetito o – al contrario – reprimerlo richiamandosi ad una diversa morale. I
l secondo apporto, che dovrebbero aver sfruttato i marketing manager di Pai, al fine di stabilire l’auspicata connessione tra l’offerta-richiamo del prodotto e la domanda-soddisfazione del consumatore, è la ben nota tecnica dipartita dal celebre «La trahison des images», il quadro di René Magritte.
Con quell’opera il pittore belga fissò il principio per cui, in effetti, un’immagine non è mai l’oggetto “in sé” ma una rappresentazione soggetta all’ interpretazione di chi guarda e pensa. «Ceci n’est pas un pipe», scrisse Magritte, dopo aver dipinto una pipa e Pai richiama un messaggio analogo, in termini ancor più didascalici. In sostanza, esso afferma che il contenuto della pouch ha solo la forma e il gusto della pasta, del piatto italiano per antonomasia, del cibo più salutistico della dieta (sedicente) mediterranea.
Il marketing di Pai propone, insomma, al potenziale consumatore un’allusione postmoderna basata sul “io so che tu sai che io so che tu non credi che questa sia davvero pasta”, ma nel “decadent consumer” che nulla più si aspetta da una patatina, tutto ciò ravviva una curiosità.
Il messaggio conduce, pertanto, a quel fatale “perché no?”
che funge da chiusura del sillogismo che sempre decide o rimanda l’acquisto di un bene di consumo. Insomma, dietro un nuovo semplice pack e all’adattamento tecnologico necessario a produrre crisps dalle forme e dai gusti accattivanti, ci vedo qualcosa di più, della abituale attività impiegatizia e short sighted di un certo marketing ormai prevalente.