Ma di quale controllo dei prezzi sta parlando costui? Si chiederà qualcuno. Sto parlando di un’ipotesi con probabilità apprezzabilmente diversa da zero, a fronte di
un’inflazione annua che potrebbe sfiorare, a fine 2022, il 14%
(qualora in novembre-dicembre i prezzi salgano dell’0,8% mensile).
Se (evento improbabile) a gennaio 2023, l’Indice dei Prezzi al Consumo si fermasse al livello di 119,6, il dato tendenziale, cioè quello menzionato acriticamente dai media e oggetto della polemica politica, risulterebbe automaticamente del 10,5%.
Affinché, il tasso d’inflazione annuo tornasse all’emblematico 2% auspicato dalle banche centrali, l’indice dovrebbe pertanto restare inchiodato al livello di dicembre 2022, sino all’ ottobre 2023, per poi tornare a crescere mensilmente dello 0,2%.
È un’ipotesi credibile?
Potremmo avanzare allora, anche di fronte a questa speranza utopica, l’idea di
una “permanenza psicologica” del fenomeno inflativo nell’immaginario collettivo,
dovuta semplicemente al modo in cui gli opinion makers leggono e diffondono in modo ossessivo i dati economici, ad effetto.
Il consenso politico però non si difende dalle rivendicazioni di ogni tipo, con un corso veloce di statistica.
Da secoli vige piuttosto la promessa di “bloccare i prezzi”
Ve n’è traccia scritta dai tempi dei babilonesi. Praticarono il controllo dei prezzi i greci, gli egiziani e con elevata frequenza gli imperatori romani.
Li richiama il Manzoni, nella Milano seicentesca. Lo volle George Washington durante la Guerra Civile. Li mise in pratica il Presidente Carter per rispondere ad una crisi energetica simile alla nostra. La parola “calmiere” comincia a ricorrere da noi, tra i movimenti consumeristi e suona troppo bene per non essere ripresa dalle vague populiste. Potrà entrare anche nella pratica governativa attuale?
Tuttavia, i controlli sui prezzi sono disponibili in due forme: prezzi minimi e massimi. I governi, messi sotto pressione, sono spesso chiamati a gestirli entrambi:
1) i prezzi minimi per aiutare certi produttori oppressi dagli “speculatori”;
2) quelli massimi per difendere i consumatori spolpati sempre dagli “speculatori”.
Purtroppo, la storia dimostra che questa soluzione non funziona oltre il breve periodo, comunque sufficientemente lungo per creare diseconomie e storture nel supply chain sempre più complesse.
Il prezzo sullo slim del supermercato (l’unico che si può controllare), infatti, non è quello che pagano i clienti. Il prezzo “vero” è quello che ingloba tutte le sue componenti tangibili e intangibili. E sono quest’ultime quelle suscettibili di sfuggire ai controlli, attraverso la qualità, le grammature, il contenuto di servizio, la localizzazione del punto d’acquisto, ecc.
Dato che la formazione dei prezzi non è stabilita a tavolino dagli anonimi “speculatori”, ma dalla convergenza di innumerevoli fattori e servizi produttivi, un qualsiasi calmiere di infausta memoria altererà questo processo ottimizzante (nel senso del calcolo economico razionale).
Chi subirà il maggior costo di una tale misura sarà una parte del sistema distributivo,
quella affetta da maggiori rigidità strutturali: rivendicazioni sindacali, richieste dei trasportatori, irrigidimento contrattuale dei grandi fornitori di power brand, costi energetici, ecc.
All’inizio del 2021, in base alle osservazioni delle politiche monetarie in atto formulai l’ipotesi di un’inflazione vicina alle 2 cifre, pochi le dettero peso.
Oggi, ritengo
probabile la riesumazione del buon, vecchio “calmiere dei prezzi”
che tanto piace al popolo sovrano. Tutto questo per l’attuale clima politico e la intuibile difesa di un consenso pur sempre volatile ed esposto alla martellante comunicazione dei media in competizione tra loro per un’audience, assuefatta all’esagerazione e alla rissa verbale.