Prezzo, Qualità e il diamante di Violetta

Avatar photo Daniele Tirelli14 Gennaio 2023

Il CORRIERE DELLA SERA ha dedicato ampio spazio in prima pagina alla sgradevole vicenda del diamante da 3,5 milioni di €, posseduto dalla signora Violetta Caprotti e rivelatosi falso ad un esame da Cartier. Il fatto induce, però, ad una riflessione, che parte dall’augurio sincero alla signora Violetta, affinché possa risolvere il caso e tornare in possesso del prezioso ricordo del padre.

La questione della “qualità” e del “prezzo” dei tanti prodotti occupa buona parte di inutili disquisizioni nella nostra business community e dell’attività di buying, senza che si giunga ad una conclusione definitiva da cui ripartire.

Riviste consumeriste pubblicano doviziose classifiche qualitative sui prodotti più diversi, classifiche che rasentano spesso i rischi della pubblicità ingannevole. Ancor peggio, stilano ranking sulla convenienza dei prezzi praticati qua e là. Il diamante della signora Violetta chiarisce tutto.

Nessuno sino a ieri avrebbe ritenuto essere, quel gioiello indossato nella mano della figlia del grande imprenditore, un volgare zircone. Nessuno crederebbe che il vero diamante indossato dalla fidanzata del ladro che operò lo scambio sia vero e tanto costoso.

La  qualità percepita (la sola che conta ai fini del marketing) dipende dalla soggettività del giudizio di chi, a sua volta, è condizionato dall’ambiente sociale in cui vive momento per momento.

Ciò non significa che la qualità oggettiva non conti. Non significa che un imprenditore non debba cercare di ottenere il meglio dalle risorse che ha a disposizione. Tuttavia, il risultato finale dipende, banalmente, da come l’”utente finale” del prodotto ne decodifica le caratteristiche.

La via più breve (che non è la sola) per maturare un giudizio qualitativo da parte di un consumatore è, il più delle volte, il “prezzo”.

Le ricorrenti, capziose polemiche suscitate dai miei post sui vini pregiati venduti da Eurospin e Aldi ne sono la dimostrazione. I 13 euro per un Amarone riassumono e veicolano un insieme di informazioni, stereotipi e pregiudizi, che prescindono da una effettiva conoscenza delle “verità” retrostanti della filiera produttiva.

Il mondo in cui viviamo impone la comunicazione Urbis et Orbis dei prezzi, e questo basterebbe  (come è scritto  nelle prime pagine di un manuale di microeconomia) per concludere che essi sono sempre, per definizione, troppo cari per alcuni e convenientissimi per altri.

Se mi offrite del Parmigiano a 10 € mi offendete. Viceversa, confesso di aver mangiato senza problemi mozzarelle “indecenti” fino a che pietosi mentori pugliesi non mi condussero sulla retta via.

Abitualmente parliamo di e misuriamo la “fedeltà alla marca”, cioè la negazione di esperienze alternative. Sarebbe, però, molto più interessante misurare l’ “infedeltà alla marca”, che dipende dalla probabilità di fare sperimentazioni diverse, le quali, a loro volta, dipendono da specifiche situazioni distributive o ambientali.

Se un ottimo chef vi dice d’aver usato spaghetti di marca X, il vostro giudizio qualitativo saprà scindere quello sulla pasta, da quello sul meraviglioso sugo all’amatriciana che l’accompagnava?

Insomma,

il famoso rapporto qualità/prezzo o qualità/valore è incommensurabile,

cioè “quantitativamente irriducibile a qualsiasi termine empirico di riferimento”, sebbene questo concetto inesprimibile esista dentro di noi come sensazione che spinge ad agire, a scegliere.

Ti amo con tutta l’anima!” usiamo dire. Sarebbe deludente sentirsi dire: “e quanto in una scala da 1 a 100?

Conclusione – Quando ci troviamo di fronte ai tanti, troppi “sondaggi” che vorrebbero fornire misure esatte della fenomenologia di prezzi e qualità cerchiamo di metter in funzione l’antidoto del dubbio!

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