(Foto iStudy-Guide)
Molte innovazioni tecnologiche finalizzate alla vendita non prendono piede perché incapaci di sedimentare un ricordo e dopo lo stupore iniziale i clienti preferiscono tornare a godere dei feedback cognitivi, affettivi, sociali e sensoriali suscitati dal luogo fisico.
Chi fosse Hermann Ebbinghaus lo sanno pochi specialisti. Eppure, tutto il mondo che ruota intorno alle attività di marketing (ma non solo) ha un debito verso questo filosofo dell’Università di Berlino che nel 1885, nel periodo d’oro del pensiero scientifico, negli anni in cui esso godeva del più elevato status socioculturale, pubblicò il suo trattato “Über das Gedächtnis” (Della memoria)
L’esclusione sociale dovuta al covid ha dimostrato come i vari trip virtuali siano un povero sostituto della realtà
Ebbinghaus vi sosteneva la necessità di mettere la capacità di ricordare, appunto, sotto esame sperimentale e ciò grazie ai suoi primi metodi volti a decodificarne i misteri. Lo studio della memoria umana ha una storia lunga e ricca che abbraccia anche le letterature sapienziali delle più antiche civiltà, perché fu sempre ben chiaro che senza memoria non può esservi accumulo di conoscenze. E ciò apparve talmente evidente che, non a caso, i Romani applicarono la damnatio memoriae proprio affinché chi fosse stato (con)dannato divenisse sconosciuto. Il contributo di Ebbinghaus fu fondamentale. Usando i propri metodi empirici, per primo tracciò una curva dell’apprendimento e una curva della dimenticanza, entrambe da correlare alla frequenza e alla natura degli stimoli ricevuti. Le varie scuole scientifiche che ne proseguirono l’opera si dedicarono poi a studiare i vari “oggetti” della memoria e i meccanismi di apprendimento: colori, forme, oggetti, numeri, parole, suoni, odori e gli strani fenomeni che ne scaturivano.
Le attuali teorie della memoria, naturalmente, si occupano di fenomeni molto più specifici e complessi. Ci si chiede come ciascun elemento venga percepito e rappresentato nella memoria, su come si associ ad altri e su come le diverse associazioni interagiscano tra loro nei processi mentali interiori che caratterizzano il risultato finale chiamato “esperienza”. A tal proposito un punto focale concerne il fatto acquisito che le informazioni ricevute da un individuo vengono sempre influenzate da una situazione ambientale leggermente diversa. Vale a dire, la vita va avanti e muta ogni contesto di riferimento. E, mutando il contesto, un’esperienza non può mai essere ripetuta esattamente nello stesso modo in occasioni diverse.
Il richiamo di ciò che viene immagazzinato nella memoria produce sensazioni diverse, in larga parte incontrollabili
Questo significa semplicemente che il richiamo di ciò che viene immagazzinato nella memoria produce sensazioni diverse, in larga parte incontrollabili: delusione, commozione, felicità interiore, serenità, angoscia. Insomma, esiste un contesto esterno mutevole riferibile all’ambiente fisico e alla situazione in cui si colgono delle sensazioni: suoni, odori, immagini, si è detto. Esiste poi un contesto interno, anch’esso mutevole e difficile da definire in termini concreti, che dipende in ogni momento da un certo stato mentale, da pensieri interiori consapevoli o no. Gli studi odierni cercano, dunque, di decodificarne le espressioni fenomeniche e di tradurle in applicazioni anche di natura economica. E ora congiungerò il bandolo di questa matassa narrativa al nostro ambito, quello delle tecniche commerciali volte a creare shopping experience sempre più efficaci, affinché un prodotto, una marca, uno store siano memorizzati e richiamati determinando una pulsione ad agire.
Anticipando una conclusione, una mia impressione è che in questi ultimi anni convulsi e interessantissimi, perché teatro di importanti progressi tecnologici, di metamorfosi dei mercati e di ricambi generazionali del management, sia aumentato il tasso di “superficialità” (che pure è sempre esistito) nel trattare questi argomenti.
L’uso definitorio di shopping experience ha giustificato tante idee bislacche oggetto di un molto ampio. Una di queste era l’ipotesi malcelata che i negozi virtuali potessero ampiamente sostituire gli storici brick&mortar; e potrei citare, a tal proposito, affermazioni aneddotiche di grandi esperti, sin dai primi anni 2000. Ma questo è folklore ormai archiviato. Nel 2004, visitammo il Future Store Extra di Metro, a Rheinberg in Germania,dove Sap, Intel, Ibm, Procter & Gamble e altre aziende hi-tech avevano riversato le tecnologie più avanzate. Di tutto ciò, ed è un peccato, se ne è persa traccia.
Dodici anni fa, per esempio, Tesco Extra di Watford – Uk – (click per entrare nel negozio virtuale) introdusse, tra i primi, l’accesso al suo di vendita virtuale tramite Google Maps, la qual cosa lasciava immaginare che oggi avremmo navigato nelle mappe entrando e uscendo da tanti luoghi simili. (Video) Visitammo, in quegli anni, algidi laboratori densi di screen, proiettori, rfid, beacon e sistemi interattivi che prefiguravano i “wireless points of persuasion”. Oggi avremmo dovuto indossare occhiali con screen integrati, per cui (cito) “una volta connesso, avresti potuto passare al mondo su internet e vedere dove si trovano i tuoi amici, condurre transazioni, unirti a chat club, leggere notizie, visualizzare annunci personali, noleggiare auto, fare investimenti e svolgere una serie infinita di attività quotidiane dalla spiaggia, dalla strada e anche sopra le nuvole. E nel momento in cui avresti visto qualcosa che volevi, istantaneamente, con un clic sarebbe stato tuo”.
Ebbene, il Covid ha offerto una fantastica occasione per accelerare l’adozione di tutte le technological wonder presentate con enfasi in infinite occasioni d’incontro prepandemia. Tuttavia, l’esclusione sociale imposta dal Covid ha dimostrato come i vari trip virtuali 3D o no, anche con i più avanzati smartphone, siano stati un ben povero sostituto delle esperienze fisiche di folle che, incuranti delle vicendevoli infezioni, si sono riversate su spiagge, negli stadi dei concerti, in discoteche, mercatini e vie dello struscio. Il 28 novembre il Wall Street Journal ci informava che il Black Friday del 2021 aveva visto le vendite online restare pressoché costanti, poiché masse di consumatori repressi si sono riversate nei mall e per le strade in astinenza da shopping.
Concludendo, perché, nonostante il tremendo sconvolgimento socio- comportamentale pandemico, non abbiamo visto un’accelerazione nei processi diffusivi della realtà virtuale? O della realtà aumentata? O della iot? O dei monitor 3D? Insomma, “Why Ain’t The Future What It Used to Be”, tanto per ripetere un noto motto americano.
Il fatto è che (come insegna la storia) molte innovazioni non prendono piede perché la loro esperienza non sedimenta un ricordo, non viene memorizzata e dunque non viene e ripetuta. Semplicemente i clienti, dopo lo stupore iniziale per qualche applicazione tecnologica o annoiati dal suo uso ripetuto, spesso decidono di tornare allo shopping nei negozi fisici, godendone l’atmosfera e sperimentandone i feedback cognitivi, affettivi, sociali e suscitati dal luogo. Ogni alternativa tecnologica non può prescinderne. Steven Schnaars, nel 1989, ebbe a scrivere che la ragione più importante per cui le previsioni tecnologiche falliscono è che le persone che le enunciano sono sedotte dalle loro stesse technological wonder e che, accecati dalle loro emozioni, perdono di vista le considerazioni economiche di buon senso, inanellano megamistake e bruciano montagne di soldi degli investitori.