“Ro pere e ‘o musso” dall’ambulante ai supermercati (Piccolo)

Il 51% delle famiglie napoletane che collaborano alla CX Store Research dichiarano “di essere fedeli alle proprie tradizioni gastronomiche” e nulla, a Napoli, può dirsi più tradizionale dell’ai più sconosciuto “ro pere e ‘o musso”.

Resta da chiarire se questo piatto o meglio questa “meal solution”, per dirla all’americana, rientri nella definizione di “gastronomia”; ma se con questo termine intendiamo il complesso delle regole e delle usanze relative alla preparazione dei cibi, anche questa specialità partenopea merita tale attributo.

In verità, il nome “il piede e il muso“, rende più gentile la sua composizione di base, ovvero le zendraglie, ovvero le interiora, di ogni genere, come nella ricetta più verace.

Parliamo, tuttavia, di “bocconi da re”, tant’è che Ferdinando I di Borbone, il “Re Lazzarone“, quel re proto-populista, disdegnoso dell’alta cultura, superstizioso, avvezzo ai modi rustici e plebei dei lazzari, che lo amarono sino a sacrificarsi contro gli invasori francesi e a volerlo di nuovo sul trono, adorava condividere il loro cibo povero.

Spieghiamo allora ai manager, soprattutto del Nord, che sono oggi tra i maggiori consumatori di “guance” di vitello, cosa si ottiene a Napoli con la parte restante del muso dell’animale.

Ovviamente va menzionto il piede del vitello, molto più ecumenico verso gli italiani, ma le parti più saporose restano la trippa, o centopelle e gli altri suoi tre stomaci. Va poi aggiunta ‘a zizza, cioè la mammella della vitella, il suo utero e il retto, oltre a l’ o’mbruglitiello , l’intestino di vitello. Altro non resta da manducare.

Per quanto agghiacciante possa suonare la precedente descrizione per coloro che la civiltà dei consumi ha allontanato dalla campagna, dai macelli e soprattutto dalla fame atavica, questo scandagliare ogni parte anatomica, tutto questo disossare e tagliuzzare, pulire, spellare, bollire per ore e ore  si risolve, alfine,  in un insieme di consistenze morbide e croccanti, di sapori unici che qualcuno definisce anche erbacei e che sconfinano nel tanto citato umami, così di gran moda in virtù delle ribolliture e delle stufature asiatiche, spesso molto più collose e meno palatabili della animalesca delizia partenopea.

A completare il tutto occorre, oltre ad una pioggia di succo di limone, una spolverata di sale asperto da un corno forato, ma ciò non perché le vacche siano dotate di corna che trasmettono al proprio corpo forze eteriche, astrali e cosmiche secondo i filosofemi deliranti di Rudolf Steiner; più pragmaticamente motivo d’ ‘o cuorno forato fu il risparmio e la sua funzionalità pratica, ma anche apotropaica, che a Napoli non guasta mai.

In conclusione, due fatti hanno colpito chi scrive. La persistente diffusione di un “piatto”  che, in origine, più povero non poteva essere e che in una Napoli satolla e propendente anch’essa all’obesità, fa rientrare il tutto nella normalità.

Secundis, stupisce la modernità dell’offerta di “ro pere ‘o musso” dei supermercati Piccolo, che hanno trasformato un furgoncino a tre ruote in un banco assistito, a cui lavora un vero carnacottaro, che prepara su richiesta del cliente il mix da asportare nella classica vaschetta.

È il caso di dire, allora, “Vedi Napoli e poi assaggia, ca nun sacc’ o c’ te perde“.

Daniele Tirelli - Loris Tirelli

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