Quello che era l’acquisto abituale di marche notissime e rese desiderabili da anni di campagne di comunicazione diviene una scelta da rivedere e spesso da mettere da parte per molte persone. Tuttavia non sempre vanno chiamati in causa stipendi fermi e inflazione iperattiva. Certo ci sono e fanno sentire i loro effetti, ma agiscono in concomitanza con altri fenomeni che vanno esaminati. Avere il carrello pieno di prodotti di largo consumo di marche famose se da un lato, in certi contesti sociali, fa ancora status symbol irrinunciabile, in altri è diventato segno di una cultura superata. Non si spende più per il cibo, ma per altri beni e soprattutto per servizi. Semplicemente cambia la scala di priorità, così una sessione di manicure giapponese, o disporre di un piccolo budget extra per fare trading online è preferibile al dispensare denaro per l’alimentazione.
Un cambiamento di mentalità per cui il cibo quotidiano perde importanza. Vi è comunque anche un fattore strutturale di determinante importanza: la dinamica demografica.
Qualche dato Istat del 2020 tuttora valido:
- il numero di famiglie in Italia è di 25 milioni e 700 mila unità con una progressiva quanto inarrestabile riduzione del numero di componenti tanto che:
- le famiglie senza nucleo (persone che vivono sole) sono il 35,6%
- i nuclei familiari con un figlio sono circa 6 milioni
- con due figli sono 4,4 milioni
- mentre con tre e più figli sono circa un milione.
Un altro aspetto da considerare: in nuclei familiari sempre più ridotti il tempo dedicato a cucinare si riduce, si prediligono prodotti con un alto contenuto di servizio (ossia pronti velocemente scaldandoli, o scongelandoli, o al massimo combinando gli ingredienti in pochi passaggi di lavorazione). Con il ritorno in ufficio dopo l’epidemia di covid, è ripreso il consumo di pasti fuori casa (in bar e ristoranti, o rimanendo in ufficio si fa uso di prodotti pronti acquistati nei supermercati di vicinato). Se si cucina meno va da sé che si acquistano meno ingredienti, quindi carrelli della spesa “semplificati”.
Chi può (perché ha le risorse economiche) e chi non è più in grado di mantenere le stesse preferenze di marca in fondo condividono entrambi lo stesso pensiero: è finita l’importanza attribuita quasi in modo fideistico ai grandi brand, si diventa lettori di etichette per ponderare gli ingredienti e si fanno comparazioni, cresce l’idea di una equivalenza fra le marche, aumenta l’interesse per quelle che forniscono soluzioni che risolvono la preparazione dei pasti, che non complicano la vita con lo smaltimento differenziato di packaging multipli, sono rispettose dell’ambiente, costano in proporzione a quanto promettono (e devono mantenere).
Quando si fa la spesa, sempre meno si ha in mente uno stile da gourmet, poco conta l’estetica, ci si pongono invece domande da nutrizionista poiché è cresciuta la consapevolezza per un’alimentazione sana. In modo molto disincantato si procede verso un convinto cambio di abitudini nella scelta di prodotti, marche, punti di rifornimento.
Così vengono immessi sul mercato e vengono acquistati prodotti imperfetti, ma assolutamente sani e adatti al consumo. Dalla frutta e verdura “brutta fuori e buona dentro”, ai biscotti rotti, agli sfridi di pasta, al sacchettino con dentro cioccolato sbriciolato, ai marrons glacés spezzati che sono stati gli antesignani in questa modalità di proposta risparmiosa. Avanza il #toogoodtogo, il cogli l’attimo (i prodotti rimasti da acquistare prima della chiusura serale), l’ultima chiamata (prodotti prossimi alla scadenza).
Parallelamente è nata un’economia dedicata che prevede l’ideazione, costruzione e commercializzazione di macchine per il recupero e il riutilizzo degli sfridi di lavorazione di molti alimenti. Viene installata una linea per il recupero di materie prime, semi lavorati, o prodotto finito ma difettoso, il tutto comunque adatto per rientrare immediatamente nel ciclo di produzione, oppure per essere confezionato in contenitori che segnalano l’imperfezione (per esempio biscotti rotti). Sono state ideate anche macchine che recuperano prodotti già confezionati, spacchettandoli, separando il prodotto dal contenitore (per esempio un flow pack difettoso) così da poterlo recuperare e riconfezionare.
Si è messa in moto una economia che, sebbene ancora imperfettamente circolare, cerca di portare sostenibilità in tutte le fasi di produzione, consumo e post-consumo, con un occhio a prezzi che possano essere accettabili da parte di una massa sempre più ampia di consumatori che non ritengono più sensate le precedenti abitudini di acquisto.
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