Bianco, o nero? La scelta non può limitarsi ad essere così manichea giacché del tartufo esistono diverse varietà, una decina circa quelle commestibili a cui purtroppo se ne aggiungono alcune piuttosto sgradevoli quanto ad odore e con un contenuto di sostanze tossiche. Tuttavia molti continuano a distinguere i tartufi solo dal colore e si fanno illudere dal tipico aroma che può essere artificialmente riprodotto e ha un nome sulfureo: bis-metiltiometano. In effetti è un composto organico che quando si sprigiona dai tartufi freschi manda in visibilio i cultori della buona tavola, quando è prodotto come aroma artificiale apre la porta a molti dubbi.
Eppure di un aroma di sintesi non ci sarebbe veramente bisogno viste le quantità di tartufi che si coltivano ovunque nel mondo. Oggi a rimescolare le carte ci pensano i cinesi con oltre 7 milioni di tonnellate di funghi e tartufi prodotti. Il dato va però interpretato e soppesato. Il tartufo è un fungo ipogeo che nasce e vive sotto terra, quindi nelle statistiche (fonte www.atlasbig.com) relative a produzione ed esportazione, funghi e tartufi sono riportati insieme. Fatto sta che la Cina detiene il 75% della produzione mondiale di entrambi. L’Italia è posizionata molto bene al secondo posto con circa 700.000 tonnellate di prodotto e precede di gran lunga USA, Olanda, Polonia, Spagna, Francia e molti altri Paesi (soprattutto dell’Est Europa).
Per quanto riguarda l’Italia, i tartufi scoperti da cani addestratissimi e raccolti dai loro padroni rappresentano una quota importante, ma di minoranza rispetto a tutto il business legato al tartufo. Quelli trovati dal fiuto dei cani da trifola sono spesso prodotti di eccezionale dimensione e qualità destinati all’alta ristorazione e contesi alle aste, mentre i tartufi coltivati in Italia, o importati sono venduti al consumatore finale, oppure sono trasformati ed entrano nella produzione di alimenti (persino di distillati). Ormai non si contano più i formaggi a cui vengono aggiunte scaglie di tartufo. Oli d’oliva extravergini, salse, sughi, creme spalmabili e preparati per risotti sono le referenze che più frequentemente trovano nel tartufo un alleato per procurarsi almeno due quarti di nobiltà che giustificano prezzi premium.
Certo il tartufo trovato sembra valere il prezzo che spunta (lo scorso anno il tartufo bianco di Alba ha raggiunto la quotazione di 5.000,00 euro al kg) anche perché fresco dura pochissimo, si conserva in frigo per 4/6 giorni. Tuttavia le sempre più estese coltivazioni e le importazioni stanno da un lato moderando i prezzi (mettendo quindi il tartufo alla portata di molti nonché diviene sempre più impiegato come “insaporitore e nobilitatore” nell’industria alimentare), dall’altro rendono il tubero ancora più prezioso quando viene scoperto dai cani fra le radici di alcune tipologie arboree. Va anche detto che la ricerca con cani e la raccolta è sempre più disciplinata e controllata. A una prima normativa del 1970, ne è seguita una più stringente nel 1985 per tutelare le aree dove, in diverse regioni italiane, crescono spontaneamente i tartufi. Un calendario definisce il tempo della raccolta e vengono stabilite le modalità così da evitare che si comprometta la naturale riproduzione e crescita. In effetti il tartufo è un ottimo indicatore dello stato di salute della biodiversità e con il cambiamento climatico rischia di divenire un ricordo nei ricettari di cucina. Per approfondimenti si veda il “Piano nazionale della filiera del tartufo”.
Se nei secoli il tartufo è stato presente sulle mense regali, oggetto di soluzioni creative da parte di cuochi, desiderato status symbol degli parvenu, è solo nel 2021 che è stato dichiarato dall’UNESCO “patrimonio immateriale dell’umanità”, o per meglio dire è il sistema di ricerca con cani che è assurto a tale ambito titolo. Un pensiero va però a cinghiali, volpi, ghiri e maiali che da tempi immemori ne avevano fatto oggetto di golosità, passando poi il suggerimento agli umani che, a loro volta, ne hanno fatto oggetto di brama.