Come raccontato più volte, il termine “evolvation” sottintende una dinamica tipica di alcuni settori produttivi e commerciali in cui l’EVOLuzione (l’adattamento alle tendenze con piccole progressive modificazioni) si alterna all’innoVATION (la comparsa di un’entità prima inesistente sul mercato).
Innovazione è anche l’apparizione nel mercato di prodotti sconosciuti e “vecchi”, in quanto appartenenti, da tempo immemorabile, alla cultura di altre nazioni, etnie, regioni.
La (mia) Emilia-Romagna fu per definizione una non-regione, divisa in Ducati (Parma, Modena, Ferrara) una legazione (Bologna) e un esarcato (Ravenna), nonché oggetto di uno stretto legame con il Ducato di Mantova.
I suoi territori antropologici sono segnati dai fiumi che da Sud corrono verso Nord e segnano i confini storici e culturali tra le province e le loro culture alimentari.
Così da Ovest ad Est troviamo la torta fritta (Piacenza e Parma), il Gnocco (Reggio nell’Emilia), la tigella (Modena), la crescentina bolognese (fritta), la piadina romagnola (da Imola in poi), il pinzi di Ferrara.
La vera tigella modenese è uno dei tanti flatbread non fritti,
assolutamente non assimilabile alla torta fritta o alla crescentine, ma piuttosto ad un altro pane sottile qual è la piadina, pur essendo anch’essa diversa da essa.
La tigella è un piccolo pane cotto in forme, un tempo di pietra, e poi di ghisa (la piadina si cuoce in un coccio). Date le sue origini montanare essa non contempla l’uso dell’olio ivi pressoché sconosciuto, ma dello strutto, come ingrediente e insaporitore.
Tagliata orizzontalmente si farcisce con un pesto di lardo, aglio e rosmarino. Dunque essendo cotta dentro una forma non può “crescere” e diventare spugnosa e morbida; resta invece croccante all’esterno e simile al pane all’interno.
Il recente lancio delle Tigelle del Mulino Bianco descritte come “spesse e soffici, cotte su pietra e con 100% di olio extra vergine di oliva”, ha suscitato la reazione degli integralisti modenesi che difendono l’attribuzione del nome alla ricetta originale.
La tigella è tutta un’altra cosa dicono e hanno in gran parte ragione.
Giorgio Pelloni, che gestisce la Tigelleria Pelloni a Sestola (Modena) è il cultore e prosecutore della tigella tradizionale, che ammette, oggi, come apporto della modernità, una farcitura nobile di salumi, invece della “cunza” l’ipercalorico e salubre pesto di lardo, già menzionato, e salubre se contestualizzato alla dura e
poverissima condizione di vita della montagna dei secoli scorsi. Ma Giorgio rifiuta nettamente il sinonimo di crescentina per il flatbread modenese.
Le Tigelle del Mulino Bianco, che potrebbero assomigliare di più a pancake salati, hanno invece mutuato la forma e le dimensioni della tigella, adottato l’olio extravergine piuttosto che un improponibile strutto e conferito una morbidezza che meglio si adatta al palato giovanile e soprattutto rende il prodotto meno delicato nel trasporto e nella manipolazione, in quanto la crosta leggera della tigella tende a fratturarsi facilmente.
La legge inesorabile del mercato di massa implica l’adattamento degli archetipi del prodotto ai vincoli ineludibili della dimensione spazio-temporale. Il prodotto strettamente fedele alla tradizione è, invece, un patrimonio gastronomico-culturale da preservare gelosamente, ma che difficilmente può varcare le soglie del localismo.
Per questo si può consumare una Tigella del Mulino Bianco a Siracusa e si deve assolutamente fare una scorpacciata di tigelle di Giorgio Pelloni, se si passa da Sestola o dai paesi dove si estende il suo raggio d’azione commerciale.
(FOTO di Emilia Food Love)